L’abbattimento degli animali è una misura estrema. In altri Paesi viene usata solo in situazioni di epidemie devastanti e incontrollabili e solo sui capi infetti. Qui invece sembra profilarsi come una soluzione “normale”, applicabile anche in presenza di pochi casi. Un precedente pericoloso.

A questo punto, una domanda scomoda ma legittima si impone: e se tutto ciò fosse anche parte di un più ampio tentativo, su scala internazionale, di ridurre progressivamente la produzione e il consumo di carne? Non sarebbe la prima volta che sotto il pretesto della salute pubblica si nascondono obiettivi economici, industriali o ideologici. Alcuni indizi, anche recenti, farebbero pensare a una strategia che, partendo da episodi locali come quello sardo, potrebbe essere finalizzata a ridurre drasticamente la presenza dell’allevamento tradizionale, con conseguenze dirette sull’alimentazione, sulla filiera agricola e sulla sovranità alimentare.

O come dice qualcuno, è stata presa di mira la Sardegna per distruggere agricoltura e allevamenti per costringere a vendere le terre per due soldi, per rimpiazzare poi con investimenti eolici e fotovoltaici. Non possiamo continuare a giustificare obblighi medici universali, sia per esseri umani che per animali, con l’argomento della “sicurezza collettiva”, senza tenere conto delle differenze biologiche, ambientali, economiche e culturali. Un approccio unico e centralizzato non può mai essere veramente giusto. E spesso nemmeno efficace.

L’isola, già duramente colpita da crisi economiche e ambientali, non può diventare un laboratorio sanitario sperimentale senza consenso né trasparenza.

Di VALLE INTELVI NEWS

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